Stefano Mancuso

Un po’ di tempo fa circolava la domanda: cosa succederebbe al pianeta se noi scomparissimo? Nel giro di un nulla ci dimenticherebbero e le piante ricoprirebbero il tutto. Le piante hanno una capacità straordinaria che gli animali non hanno: sentono il cambiamento dell’ambiente e adattano il proprio metabolismo, la propria fisiologia. Noi se fa troppo caldo iniziamo a spogliarci, poi sudiamo, ma alla fine non possiamo fare niente di più. Loro cambiano la propria fisiologia se diventa troppo caldo; ma è cosi per il freddo, lo smog, l’inquinamento. Cambiano il proprio metabolismo, adattano il loro corpo sia anatomicamente che fisiologicamente: loro tranquillamente sopravviveranno noi forse meno.
Non mi ricordo se era stato Giuseppe Oglio, Alan ImaiAntonella Rastrelli o Simona Nava che aveva parlato di Stefano Mancuso meno di 24 ore prima, ma quando ieri sera l’ho visto a Che Tempo che Fa non ho potuto fare a meno di pensare che non era un caso e che forse è giusto aggiungere un altro nodo a questa rete di connessioni. Chi era al convegno, leggendo quanto segue troverà una contiguità tra i discorsi della conferenza, a proposito dell’Agricoltura Naturale, e quanto dice Stefano. A proposito la foto che riporto, presa un paio di settimane fa a Levaldigi aggiunge forse un’altra caratteristica alle piante: l’ironia.

Levaldigi

Diceva che le piante possono effettuare calcoli di rapporti costi-benefici. Può fare un esempio?
Supponiamo di osservare una pianta che cresce accanto a un’altra. Le due competono per un bene essenziale per la vita vegetale: la luce solare, fonte primaria di energia. Supponiamo che la “nostra” pianta sia più bassa dell’altra e che quindi riceva meno luce. Questa è una tipica situazione in cui la pianta deve prendere una decisione: restare com’è, accontentandosi della poca luce che le arriva, oppure investire risorse nella crescita, nel tentativo di superare l’altezza della sua competitrice? Per il mio modo di vedere, scegliere questa seconda strada significa tentare una previsione del futuro: “immaginare” che i sacrifici richiesti per allungarsi saranno ricompensati dalla maggior disponibilità di luce.

Ma come si fa a sapere che l’allungamento della pianta è frutto di un calcolo e non di un meccanismo automatico, geneticamente determinato?
Certo, il dubbio può venire. Però proviamo a pensare a che cosa accade se, invece che un solo fattore – la luce solare – ne prendiamo in considerazione contemporaneamente altri, proprio come deve fare la pianta: salinità, umidità, concentrazione di azoto, presenza di parassiti e così via. Di fronte a un quadro così complesso, la “decisione” sulla direzione in cui crescere (puntare di più sullo sviluppo fogliare? Sull’allungamento del fusto? Sullo sviluppo delle radici? Sulle difese contro i patogeni?) non può essere una risposta automatica, ma deve dipendere dall’integrazione ed elaborazione delle informazioni, fino a stabilire quale necessità, di volta in volta, è più stringente.

Ci può dire qualcosa anche sulla comunicazione tra piante?
Comunicazione è sicuramente una delle parole chiave della neurobiologia vegetale. Abbiamo visto che le cellule di un’unica pianta comunicano tra di loro, in modi analoghi a quelli che finora si ritenevano esclusivi degli animali. Le piante, però, sono abilissime anche nel comunicare con altri organismi della stessa specie o di altre. Le radici, per esempio, secernono nel suolo una gran quantità di sostanze che costituiscono veri e propri messaggi di segnalazione, e lo stesso fanno le foglie e i fiori, con molecole volatili. In alcuni casi si tratta di “armi chimiche”, dirette contro le piante circostanti con l’obiettivo di ostacolarne crescita e sviluppo, o contro predatori, per allontanarli. Altri segnali, invece, sono “amichevoli”, e servono per attirare impollinatori o per avvertire altre piante della propria comunità della presenza di pericoli: numerosi studi hanno mostrato che le piante attaccate da insetti erbivori o da patogeni emettono sostanze volatili in grado di segnalare il pericolo alle piante vicine, dando loro il tempo di prepararsi per affrontarlo, con modifiche della propria fisiologia che le rendano più resistenti.

Ma non converrebbe a una pianta sottoposta all’attacco da parte di un patogeno concentrarsi sulla sua risposta, senza perdere tempo e risorse per avvisare gli altri? Non le converrebbe essere egoista piuttosto che altruista?
Consideriamo il problema in ambito evolutivo e immaginiamo di avere una pianta infestata “egoista”, cioè concentrata solo a difendere sé stessa. Poiché non ha avvertito le piante vicine, è molto probabile che anche queste finiranno con l’essere attaccate dal patogeno che, di conseguenza, rimarrà “in zona” e potrà tornare a infestare più volte la pianta egoista. Non solo: in seguito all’infestazione, le vicine possono morire, e allora la nostra pianta egoista, anche se rimasta in vita, non avrà nessuno nei dintorni con cui riprodursi. Insomma, proprio come nel mondo animale, anche in quello vegetale ci sono situazioni in cui conviene, evolutivamente parlando, essere altruisti.

Le piante non comunicano solo all’interno del loro mondo, ma anche con gli animali…
È proprio così, basti pensare ai segnali visivi (i colori) e olfattivi che emettono i fiori per attirare gli insetti e indurli in questo modo a effettuare il servizio di impollinazione. E ancora: molte piante attaccate da predatori o da patogeni producono sostanze repulsive nei confronti del nemico, oppure in grado di attirare predatori del nemico stesso (secondo la nota logica “il nemico del mio nemico è mio amico”). Tra le più comuni, lo fanno per esempio il tabacco, il pomodoro, le melanzane. Questa proprietà e quella di avvertimento alle piante vicine possono essere sfruttate in ambito agrario: se inondiamo una coltura con un “messaggio di avvertimento”, la prepariamo all’attacco, rispetto al quale sarà più resistente. []

Mitezza contro violenza, fissità contro movimento, autotrofia contro eterotrofia, lentezza contro velocità: piante e animali sono il risultato di scelte evolutive opposte. Praticamente inermi, alla base della catena alimentare, eppure capaci di colonizzare la Terra fino a rappresentarne il 98% della biomassa, nella vita delle piante esiste un’idea utopistica e rivoluzionaria, che ne rende avvincente e imprevedibile il loro studio. Unici organismi viventi realmente “verdi” (in tutti i sensi), hanno evoluto strategie di comportamento così diverse da quelle degli animali da essere per noi una fonte inesauribile di originalissimi insegnamenti. Senza l’aggressività e prepotenza degli animali, senza la pressante necessità di uccidere per sopravvivere, le piante sono la realizzazione terrena del discorso della montagna: sono loro i miti che un giorno erediteranno la terra. []

E’ vero che considerazioni sull’intelligenza delle piante si ritrovano in scritti di Aristotele e di Darwin. Su cosa si basavano allora queste considerazioni?
“Nel 1880, Charles Darwin, assistito da suo figlio Francis, pubblicava un libro fondamentale per lo studio della fisiologia vegetale, si tratta del famoso The power of movement in plants. Nelle ultime pagine del capitolo finale Darwin riflette sulle sorprendenti caratteristiche dell’apice radicale: non è una esagerazione dire che la punta delle radici, avendo il potere di dirigere i movimenti delle parti adiacenti, agisce come il cervello di un animale inferiore; il cervello essendo situato nella parte anteriore del corpo riceve impressioni dagli organi di senso e dirige i diversi movimenti della radice. Charles Darwin era sempre stato affascinato dalle caratteristiche dell’apice radicale. Nella sua autobiografia (1888) scrive di sentire uno speciale piacere nel mostrare quanti e come mirabilmente ben adattati siano i movimenti posseduti dall’apice della radice. Quello che impressionava maggiormente Darwin era l’abilità delle radici nel 1) percepire contemporaneamente molteplici stimoli ambientali, 2) essere in grado di prendere una decisione e 3) muoversi in funzione di questa. Darwin espose le radici a numerosi stimoli, quali fra gli altri la gravità, la luce, l’umidità, il tocco e si accorse che due o più stimoli applicati contemporaneamente potevano essere distinti dagli apici radicali e che la risposta a questi stimoli era tale da presupporre che la radice fosse in grado di distinguere fra i diversi stimoli e giudicare quale fosse più importante ai fini della sopravvivenza dell’intera pianta. Solo recentemente si sono ottenute prove sperimentali che confermassero queste intuizioni di Darwin. A più di cento anni dalla originaria intuizione di Darwin, la presenza di una speciale zona sensoria e di calcolo posta nell’apice radicale è ormai un dato certo, e per il lettore che volesse approfondire l’argomento suggerisco la lettura del libro recentemente edito dalla Springer “Plant Communication – Neural aspect of plant life” (Baluska, Mancuso e Volkmann, 2006), che tratta diffusamente dell’argomento”. []

Ma un giorno non lontano il platano all’angolo potrebbe avvisarmi della presenza di troppe PM10 nell’aria e consigliarmi di uscire in un altro momento. E un abete in montagna potrebbe mandare sms agli sciatori avvisandoli dell’arrivo di una valanga?
“Abbiamo iniziato a maggio e per ora stiamo raccogliendo un database di tutti i segnali che le piante emettono in funzione di particolari stimoli – spiega Mancuso – In questa fase abbiamo raccolto in laboratorio diverse piante che stiamo stressando in vario modo, per esempio esponendole a sbalzi di temperatura o soffiandogli addosso gas inquinanti. Lo scopo è quello di registrare le risposte elettriche a questi stress, poi quando avremo raccolto un ricco database passeremo i dati ai nostri partner che lavoreranno per decodificarli. Per dare un’idea più chiara di quello a cui stiamo lavorando, diciamo che stiamo tentando di tradurre una lingua ignota e abbiamo iniziato a raccogliere alcune parole associandole a dei significati. Altri poi ci aiuteranno nel lavoro di traduzione matematica di queste informazioni”. Un lavoro di codifica di enormi proporzioni, che si basa però su un’incognita, cioè sull’ipotesi che la “lingua” vegetale sia ricca di parole e non sia invece limitata a tre-quattro espressioni che le piante usano per molte diverse occasioni. “Ovviamente questo rischio esiste, dato che ci muoviamo in un settore completamente inesplorato – continua Mancuso – le piante in effetti potrebbero anche comunicare un range ristretto di informazioni. Ma se riuscissero a dirci almeno quattro cose come ‘ambiente buono’, ‘ambiente medio’, ‘ambiente cattivo’ e ‘pericolo’ sarebbe già un grande successo. Non solo ci aiuterebbero a tenere sotto controllo l’aria che respiriamo ma per esempio potrebbero avvisarci dell’arrivo di una nube tossica, di una valanga o darci informazioni su un terremoto”. []


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