Un pò di sere fa ho partecipato ad una presentazione dei primi risultati del progetto “Hungry for Rights” ad un convegno di Expo Dei Popoli. Il progetto che ha tra le sue capofila AcraCCS, vuole “Realizzare le condizioni per l’apprendimento reciproco, la comprensione critica e l’impegno attivo degli attori chiave sui sistemi agroalimentari a base comunitaria“. Come prime azioni hanno iniziato a mappare dei protagonisti di questo settore e in quella sera ha presentato i primi risultati. Hanno presentato tre esperienze ma sicuramente le più significative sono BioPiace e Aequos.


Sono due esperienze molto diverse, come potete appurare voi stessi scorrendo i links che vi appena fornito, ma quello che ci tenevo a mettere in evidenza sono i rapporti tra soggetti diversi che queste realtà devono assolutamente creare e le caratteristiche innovative che questi rapporti devono avere. Il processo di BioPiace è tutto incentrato nel porre i presupposti di una relazione virtuosa tra le realtà del territorio passando da una modificazione attenta della contrattualizzazione che regola le forniture a scuole e ospedali e i fornitori di questi. L’idea era che una provincia dovesse alimentare i propri bambini e i propri ammalati con prodotti di qualità che venissero da quella terra e quindi in una decina d’anni hanno costruito tutte le condizioni per cui questo potesse avvenire. Aequos diversamente ha costruito un polo logistico all’interno di una comunità di GAS rispettando tutte le regole che questa situazione permetteva. Se guardate i numeri riportati nelle slides, potete intuire parecchie delle caratteristiche di queste esperienze, come ad esempio la relazione che esiste tra l’utilizzo del lavoro dei volontari e la marginalità corretta che deve essere garantita ai produttori. Temi molto complessi che chiaramente vanno approfonditi e come sapete già un’ottima fonte è il libro “Un’economia nuova, dai Gas alla zeta” che ho appena finito di leggere.
Mentre vi procurate la vostra copia leggete quel capitolo del libro che in modo sintetico parla proprio delle condizioni alle quali è possibile fare impresa sociale.
Questa domanda – sottesa all’intero libro – è rivolta anche a quei Distretti che hanno iniziato un percorso con le Istituzioni locali. Non esiste un’unica risposta. L’unica certezza sembra essere rappresentata dal ruolo di cui le realtà dell’Economia solidale devono appropriarsi, se vogliono incidere sulla “politica” di questo Paese: ovvero un ruolo di protagoniste impegnate a dare spessore – sul proprio territorio – a una rete di relazioni che si fondi sulla fiducia reciproca e permetta innanzitutto di aprire Tavoli di confronto su tutti i temi che riguardano il “bene comune”.
C’è un elemento, sperimentato negli approcci che le differenti realtà dell’economia solidale hanno avuto con le istituzioni, che si ripete: è la necessità di non trascurare una specifica capacità di fare politica attraverso le prassi che già sono attive, promuovendo nel contempo la partecipazione attiva alle reti e la proposta di dialogo con le istituzioni. Questi percorsi hanno infatti permesso – se giunti al termine – di ottenere un impianto legislativo “aperto” a chiunque intenda promuovere i principi e le pratiche dell’Economia solidale. In tale contesto tutti gli “attori” potranno (e dovranno) poi dimostrare la loro capacità di essere solidali.
Una trasformazione possibile – a nostro parere – quando i cittadini saranno pronti a dismettere i loro ruoli separati di imprenditori, dipendenti, consumatori, per essere semplicemente cittadini di una comunità in grado di autosostenersi.
Sarà allora possibile fare impresa solidale, se – ponendo al centro le persone, i territori, le comunità locali – oltre al prodotto finale si avrà cura di progettare insieme i processi stessi di economia solidale, ricercando costantemente la sostenibilità sociale, ambientale ed economica. Del resto lo stesso termine “impresa solidale” non può rimanere solo un sinonimo di impresa non profit, o di cooperativa sociale, ma deve riferirsi a un diverso modo di soddisfare bisogni reali, primari, di sussistenza, di relazione: l’“impresa” di soddisfare tali bisogni toccherà allora alle “comunità distrettuali” e alle loro filiere, lasciando volentieri il termine impresa e la batteria di concetti collegati al mercato capitalistico, che essa si trascina dietro (efficienza, efficacia, produttività, lavoro, remunerazione) .Allo stesso modo la comunità solidale non deve essere un gruppo sociale con nome più “politicamente corretto”, ma un diverso modo di concepire i rapporti fra le persone, basati sul concetto maussiano di dono e non su quello dell’interesse individuale.
Per concludere, l’impresa solidale è prima di tutto un insieme di cittadini che provano a essere progressivamente “non impresa”, per formare – insieme a tante altre “non imprese” – una comunità solidale al proprio interno e nel rapporto con altre comunità, con l’ambiente e con le generazioni future. Un orizzontegià vagheggiato da studiosi quali Karl Polanyi, Ivan Illich, Serge Latouche: l’economia come attività che fa parte del normale metabolismo di una società sobria, conviviale, ecologicamente e socialmente sostenibile,le cui condizioni possono ancora una volta riassumersi nel motto “non fare da soli ciò che è possibile fare insieme”. [Pagine 149-150 ]
Manuela Vanzo
Mi sembrano tutti principi molto vicini al concetto di societing. Fare economia non perdendo mai di vista il bene comune, con un occhio di riguardo per le tematiche della sostenibilità sociale e ambientale, facendo leva sulla capacità di organizzarsi e fare rete delle comunità locali.