Il 4 dicembre a Milano ci si trova tutti insieme a parlare del libro Un’economia nuova, dai Gas alla Zeta. Trovate tutte le indicazioni su questo evento Facebook a cui vi prego di connettervi e quindi invitare tutti i vostri amici perché è importante essere in molti. Quella sera ci piacerebbe che si parlasse della comunicazione dell’Economia Solidale. Ciboprossimo è un progetto di comunicazione nel senso meno convenzionale della parola per cui ci piacerebbe confrontarci su questo. Marco Binotto e Jason Nardi ne hanno parlato approfonditamente nel libro e con grande intelligenza hanno rilasciato il loro paragrafo con licenza Creative Commons “E’ consentita la riproduzione, parziale o totale dell’opera e la sua diffusione in via telematica purché non sia a scopo commerciale e a condizioni che sia riportata fonte e autore” e quindi noi ne approfittiamo per vedere se la lettura vi stimola ad acquistare il libro.
GaoS, GASati, Banda GASsotti, Gasdotto, Gastone, GasAbile, A tutto GAS. I nomi comunicano. La stessa sigla scelta dai Gruppi d’acquisto solidale, GAS, così breve e semplice, così facile da inserire in frasi o parole, comunica e ha contribuito a sviluppare l’inventiva, la fantasia. La chiarezza e riutilizzabilità di quelle tre parole ne hanno, in parte, fatto la fortuna. I gas proliferavano e si sono moltiplicati per anni quasi per contagio, di bocca in bocca, mentre ogni gruppo inventava giochi di parole, nuove e curiose forme per inserire l’acronimo nel proprio nome. Ma, paradossalmente, mentre i gas e altre iniziative si moltiplicavano e si irraggiavano formando reti, non ne aumentava altrettanto la visibilità e il riconoscimento, circoscritto per lo più agli “iniziati” e a chi, casualmente, ne veniva a contatto.
Poi le reti di economia solidale, non a caso, hanno cercato di riprodurre la “magia” di questa storia creando nuovi acronimi utili a rappresentare gli sviluppi tematici, territoriali, programmatici di questa esperienza originaria (Res, Des e altri). Ma gli incantesimi difficilmente si ripetono. Queste sigle non hanno permesso un’analoga proliferazione di formule linguistiche e immagini ironiche o evocative. Né hanno reso più comprensibile a chi non fosse già in qualche modo a conoscenza del linguaggio ecosolidale a cosa si riferissero “Distretti di economia solidale” o espressioni simili.
I processi e la necessità creative si sono, in alcuni casi, allora indirizzate verso il titolo di quelle realtà rielaborando una serie di istanze ideali, concetti, parole chiave e, quindi, simboli e narrazioni (Cambieresti, “L’isola che c’è”, “utopie sorridenti”, …), come già da anni viene fatto dal marketing nelle tecniche di costruzione del brand delle imprese che operano in questo ambito per battezzare imprese e produrre materiali pubblicitari.
L’immaginario dell’Economia solidale ha però i suoi limiti. Questa storia, per questa parte così fortunata, sintetizza uno degli elementi principali della comunicazione dell’economia solidale. L’elemento fondante dell’espressione e costruzione culturale si fonda sugli elementi della costruzione dell’identità: il nome, i principi fondanti, il chi siamo e cosa facciamo. La solidarietà, il termine “solidale”, così carico di significati e riferimenti, ha riempito, e forse anche saturato, la capacità e necessità di aggiungere contenuti. Purtroppo questo è anche uno dei limiti dell’abilità comunicativa dei Gas e delle reti. È una comunicazione fatta soprattutto di argomenti, idee, concetti. Ma questo è solo uno degli aspetti della comunicazione. La comunicazione di un gruppo, di una rete, di una comunità non si fonda solo su parole chiave o convinzioni. Ogni collettività, ogni comunità diventa forte, espressiva, duratura se riesce ad esprimere qualcosa più di un identità o di alcuni valori condivisi: occorre una visione comune, che possa essere rappresentata visivamente. Lo si nota osservando la carenza di storie ricorrenti, l’uso ridotto di immagini o nella scelta di illustrazioni convenzionali, spesso tratte dagli stereotipi dell’immaginario agricolo e ambientalista. Deve invece produrre narrazioni collettive, immagini, simboli, rituali: un linguaggio nuovo. Deve parlare la lingua dell’immaginario collettivo; deve creare “miti fondativi” fino ad autentiche epopee condivise. L’universo dell’economia solidale si è fondato su pratiche diffuse sul territorio, variegate e plurali, ha proposto cambiamenti profondi dello stile di vita; ma non ci sembra ancora riuscita a superare questo confine. Non è riuscito ancora a farsi «comunità che viene», non ha ancora creato una storia o una lingua, comune per quanto dispersa. Certo, ci sono alcune “filosofie” di riferimento che sono alla base delle idee e dei valori dell’economia solidale ma ancora un immaginario forte e coerente non c’è e molti concetti rimangono complessi o astratti (pur essendo le pratiche concrete e quotidiane).
Invece, l’economia della crescita, del PIL, del consumismo, del (falso) progressismo, possiede una capacità evocativa forte, perché danno l’idea di poter aspirare a uno stato di benessere attraverso uno sviluppo e una disponibilità materiale sempre maggiore, per soddisfare qualsiasi desiderio, anche quelli che non sapevamo di avere. Con un martellamento continuo di immagini e di messaggi semplici e rafforzativi, che arrivano direttamente e non hanno bisogno di molte spiegazioni.
La rete dell’Economia solidale fatica quindi a rendere “universali” le sue idee. Tuttavia con un banale sillogismo è chiaro che: “Non esiste economia solidale senza rete, non esistono reti senza comunicazione”. Il tratto caratteristico dei gas e delle reti di economia solidale è il loro carattere plurale e polifonico, così legato a territori ed esperienze non omologabili o unificabili. Senza comunicazione però questa molteplicità non diventa ricchezza collettiva ma frantumazione, frammentazione, disomogeneità. Priva di uno stabile tessuto di connessione la ricca “biodiversità” dei diversi gruppi, progetti, reti si trasforma in una serie di barriere che ostacolano il passaggio di informazioni e suggestioni.
Si rende così difficile il passaparola: le singole trovate, storie e sperimentazioni con difficoltà diventano idee contagiose, vicende esemplari, casi emblematici e ripetibili. Perché la comunicazione, come l’economia solidale stessa tra l’altro, non è fatta, o almeno non solo, di messaggi e contenuti da diffondere, di prodotti “chiusi” da distribuire sul mercato. La comunicazione è relazione e incontro, mette in contatto, permette occasioni di scambio tra i territori, anche a livello internazionale.
Questa constatazione ha, secondo noi, una doppia importanza. Infatti questo canale “interno” di scambio di idee ed esperienze è ancora più importante in una situazione in cui manca o è debole la presenza di alternative. Spesso in situazioni simili, dal comitato di quartiere fino ai vari movimenti #occupy, le diverse realtà territoriali vengono raccontate, diffuse, riempite di simboli dal ruolo dei media, che siano o no mainstream.
Nell’ambito dell’economia solidale, sia l’attenzione sporadica da parte dei grandi network e dei media mainstream che la presenza di mezzi di informazione indipendenti – pur molto validi e utili – non appare ancora sufficiente a colmare questa lacuna. All’economia solidale mancano media che costruiscano ambienti collettivi dove idee e storie possano prodursi o catalizzarsi. Disperso in tanti siti web e in una foresta imperscrutabile di mailing list, è difficile pensare un qualche spazio pubblico all’interno del quale possano nascere e crescere dibattiti, occasioni di confronto e trasformazione. Nel sistema attuale, disseminato in una miriade di strumenti spesso isolati e ridondanti, privati o di difficile accesso, i progetti come le proposte, le informazioni come le richieste d’aiuto, faticano a circolare mentre molte e molti si lamentano della “difficoltà di comunicare”. È difficile che qualcuno ci chiami se non possediamo una linea telefonica… Se la televisione è il medium che ha più caratterizzato l’era dell’economia di mercato, Internet sta diventando il mezzo più adatto a comunicare l’economia solidale, per la sua stessa natura di rete aperta.
Fare rete in Rete sarebbe lo slogan da usare. Per superare barriere culturali (un digital divide che non è solo di alcuni produttori che non lo ritengono importante, ma di molti gasisti che non ne comprendono le potenzialità). Ad oggi in Italia, i siti di riferimento nazionale dell’economia solidale sono due: retegas.org e retecosol.org. E sono rimasti entrambi ad un’era passata del web: oggi sono i (micro)blog e i social network i modelli di riferimento, quelli più utilizzati e accessibili. Così come la miriade di siti di gas e produttori, spesso molto basilari e non aggiornati. E il più delle volte mantenuti da “smanettoni della domenica”.
Alcuni esperimenti di web 2.0 esistono – basti pensare a Zoes.it, che è stato il primo social network dedicato ai temi dell’economia solidale in Italia. Ma occorre investire seriamente nello sviluppo e promozione di strumenti e piattaforme comuni sul web (interoperabili, ovvero in comunicazione tra loro per mantenerne la pluralità senza la dispersione) che siano riconosciuti e riconoscibili, utili e utilizzati. E’ una sfida importante, che può permettere un salto di qualità anche nella comunicazione verso l’esterno, rendendo più popolari le iniziative fatte nel modo dell’eco-solidale anche – e soprattutto – a un pubblico giovane.
Un ulteriore aiuto nella direzione del “mainstreaming” può venire da un confronto approfondito con il mondo e le “comunità” del software libero. In particolare dal modo in cui viene declinato il concetto di libertà e di condivisione, e dall’etica hacker. Lo sviluppo di GNU Linux e la pratica non solo di mantenere aperti i codici perché siano trasparenti e utilizzabili da chiunque, ma anche condivisibili liberamente e adattabili alle proprie necessità, ha reso popolare e immediata la diffusione del software libero, nonostante i colossi commerciali e gli enormi interessi in gioco.
Al di là di un’alleanza tra i due movimenti (se così possiamo definirli), si potrebbe cominciare a produrre strumenti di comunicazione (computer, tablet, telefoni, ecc.) con aziende che seguono i principi e le pratiche dell’economia solidale, condividendo circuiti e… filiere. I prodotti diventerebbero essi stessi (come avviene con il commercio equo) veicoli di comunicazione di un’altra economia. Ma oltre la rete non c’è molto. Alcune collane librarie di editori indipendenti, gli opuscoli informativi, qualche video, ed. Ma non ci sono film, serie televisive, pubblicità o reality (vi immaginate un grande fratello ecosol?). Né sono naturalmente tutti auspicabili, ma occorre lavorare a una comunicazione che vada incontro alla gente, che offra un messaggio chiaro e un immaginario vivace. Che sia, insomma, popolare oltre che solidale. [Pagine da 185 a 190]
In fondo al paragrafo nel libro cartaceo c’è una bibliografia approfondita che vi consigliamo di leggere. A proposito che ne dite del video che vi abbiamo proposto? E’ un buon esempio di come si comunica il nostro rapporto con l’attuale società? Siamo in grado di farne altrettanti per trattare i temi dell’economia solidale?