In Italia ne è un esempio Cortilia, nata in Lombardia nel 2013 come mercato virtuale che porta a casa dei clienti, che ordinano on-line, frutta e verdura prodotta dall’azienda agricola più vicina al luogo di consegna. Un esempio di filiera accorciata in cui salta l’intermediazione grazie a un utilizzo intelligente del Web. Il fenomeno che la include è il farmer market, nato a New York, dove se ne contano oltre 170, ma si è ormai diffuso in Italia, tanto che Coldiretti ha costituito una fondazione, Campagna Amica, con cui sono stati attivati 8392 punti vendita. 
Un business che in Italia coinvolge ormai oltre 7 milioni di persone, ma è già da tempo sviluppato ampiamente negli Stati Uniti, dove ci sono Instacart, che porta il cibo nei negozi più vicini al cliente, che poi li ritira, e Good Eggs, che spedisce dalla fattoria a casa.
Nonostante che l’incidenza di questi nuovi business sul totale del settore sia ridotto, il fenomeno sta vivendo una diffusione veloce, tanto che in Italia i farmer markets sono quasi 1000. Il successo di queste iniziative, che di certo non possono né essere paragonate alla potenza della grande distribuzione organizzata, né pretendere di metterla in discussione, poggia su due fattori Win-Win, di vantaggio reciproco. Il primo, il fattore “km zero”, gioca a favore del cliente finale, definito consumatore negativo, che fruisce di prodotti di cui conosce la provenienza; quasi sempre può risparmiare, e si sente con la coscienza a posto perché pomodori, zucchine, patate che lo raggiungono a casa da qualche fattoria vicina sono prevalentemente prodotti di stagione, e ‘senza le ali’, in quanto non devono attraversare l’oceano. Il secondo fattore di vantaggio da disintermediazione interessa invece il produttore: per ogni step che viene saltato, egli conserva per sé i relativi margini di guadagno, che altrimenti sarebbero erosi proprio da ogni passaggio della vecchia filiera, perché ‘ceduti’ a ciascun intermediario.
Spesso questi processi di vendita non trovano come clienti un singolo individuo o una sola famiglia, ma gruppi di acquisto solidale, i cosiddetti gas, altro esempio di disintermediazione, questa volta del consumatore. Nati negli anni 90 e non esclusivamente riguardanti l’acquisto di cibo, questi ulteriori fenomeni giocano sul maggior potere d’acquisto dato dal fattore quantità: unendo più domande singole di prodotti riescono a ottenere prezzi migliori. Pur incontrando la difficoltà di tante province italiane prive di collegamenti di trasporto efficienti e adeguati, la nuova imprenditoria sembra dare a tutti una chances di successo, tanto che, dopo aver studiato e conseguito titoli di studio elevati, con una laurea magistrale o un master, si torna alla terra con la prospettiva che, unendo un buon prodotto a un idea valida, tramite questi processi tutto diventa possibile.
Secondo Carlo Ratti, che al Massachusetts Institute of Technology di Boston dirige il senseable city lab, l’Internet of Food sviluppa il concetto di Internet of Things, in cui gli oggetti possono comunicare direttamente attraverso tecnologie interconnesse, in grado di introdurre livelli di connessione ulteriori, raccogliere e fornirci informazioni. Ed è su questo concetto che Ratti sta sviluppando in Sud Tirolo il progetto Matching Markets, un microcosmo vivo, anche se di dimensioni ridotte, in cui ci sono oltre 25.000 aziende agricole, una vivace vita urbana e un passaggio di oltre 5 milioni di turisti ogni anno. Funziona così: mercanti e venditori ambulanti di prodotti locali vengono inseriti in una rete mobile che fornisce ai clienti informazioni, aggiornate in tempo reale, su dove si trovano i veicoli dei venditori, quali tipi di prodotti sono disponibili, a che prezzo, da dove provengono; il sistema consente contemporaneamente di raccogliere in forma anonima la posizione e gli interessi dei clienti, cosicché i venditori possono migliorare strategie di vendita e scegliere la posizione più efficace in cui collocarsi. Matching Markets interviene quindi in un contesto inefficiente, dove l’incontro tra domanda e offerta è subottimale; i clienti, infatti, pur mostrando una richiesta sempre maggiore di prodotti locali freschi e di alta qualità, non hanno informazione adeguata sulla loro disponibilità e sul luogo in cui reperirli, perché farmer market e ambulanti operano attraverso posizioni e tempi fissi che ne limitano la fruibilità e i dati in possesso degli stessi clienti. Matching Markets riesce così a portare efficienza al mercato: un ottimo esempio di disintermediazione, confermata da Ratti, che vede in questo sistema lo strumento per tagliar fuori il middle man, ossia l’intermediario; ma anche di innovazione perché, secondo Ratti, con la crescita delle città in dimensione e complessità, e la popolazione urbana sempre più connessa e ‘mobile’, emerge l’opportunità di riesaminare le strategie di distribuzione e disegnare un mercato in un modo che aumenti l’efficienza migliorando la comunicazione tra produttori e consumatori. Sì, grazie a Internet, è facile creare una rete, questi esempi ci aiutano a comprendere come la disintermediazione sia un fenomeno sempre più diffuso, che può però funzionare anche senza i fattori tecnologici. È recente perché è di certo stato influenzato dall’idea comune che le tecnologie ci rendono più autonomi e con essa si possono in qualche modo avvicinare i soggetti e metterli in relazione senza molte intermediazioni e troppi passaggi. Il pastificio emiliano Ghigi, per esempio, dopo il suo declino è passato, attraverso i consorzi agrari, direttamente nelle mani degli agricoltori. Pur senza il fattore Internet, ha in qualche modo disintermediato, perché la gestione completa della filiera consente di bypassare molti soggetti, come i già citati mediatori, e dopo questo cambiamento il suo presidente, Filippo Tramonti, può finalmente dire che ora ‘il capo dell’azienda è l’agricoltore’. Partito da un mercato saturo come quello dei pastifici, 120 in Italia, il progetto ha consentito al consorzio di trovare uno spazio nuovo per conservare nelle mani dei produttori una fetta maggiore di margini di guadagno. Anche quest’esempio di innovazione, in cui la disintermediazione ha per oggetto la proprietà, conferma che saltare una parte, anche solo una qualsiasi, della filiera può aumentare l’efficienza, consentendo di raggiungere quindi una più elevata economicità.
L’accorciamento della filiera porta poi altri vantaggi, come una maggiore sicurezza alimentare; dove invece non si riesce a disintermediare, si calcificano vecchie problematiche. I produttori lavorano con margini sempre più ridotti e la sicurezza viene spesso penalizzata, come nel caso del mercato indiano, in cui i passaggi di mano sono così tanti, e la filiera così sconnessa, che il cibo rischia il deperimento e la tracciabilità è pressoché impossibile. 
Il fenomeno si sta diffondendo anche nel settore della trasformazione, dove la disintermediazione può includere anche un vasto sistema di accordi e aggregazioni. Il consorzio italiano Melinda, con 280 milioni di fatturato, di cui il 33% in export in oltre 50 paesi, ha operato sul fronte dell’aggregazione, convincendo 4000 agricoltori a irrobustirsi unendo le forze e rinunciando alla concorrenza reciproca.
I vantaggi? Molteplici: la possibilità di centralizzazione di molte funzioni aziendali, di marketing, lavorazione, vendita ecc. Aggregarsi significa in qualche modo evitare la concorrenza rafforzando soggetti che da soli non potrebbero accedere al mercato.
Che cos’è infatti il sistema di accordi tra produttori e trasformatori, se non un salto nella filiera che punta proprio alla disintermediazione, pianificando meno passaggi? Ne è un altro esempio il progetto Campi Aperti siglato, da Barilla con un centinaio dei 5700 soci della cooperativa di produttori bieticoli Coprob, che ha per oggetto il grano e lo zucchero e che prevede l’assorbimento totale della loro produzione, puntando a migliorare la resa agricola (+20%) e, quindi, la remunerazione degli agricoltori, e a un risparmio netto dei costi per gli stessi (-30%). Un processo ricercato sia dal basso, nell’interesse dei produttori che si garantiscono la vendita della produzione e margini adeguati, sia dall’alto, come per la casa spagnola Doleo, che controlla gli oli Carapelli e che mira a limitare sempre più il ricorso a intermediari (dal 40% di forniture di pochi anni fa al 2% attuale). Secondo Giuseppe Toscano, direttore del master in Food Management dall’università Liuc, l’integrazione è fondamentale per tagliare i costi della materia prima che per alcuni prodotti arrivano addirittura all’80%. Disintermediare può così portare anche all’integrazione, un processo di dialogo intenso e duraturo con i propri fornitori, che può consegnare nelle mani dei consumatori un prodotto migliore e in quelle dei produttori e dei trasformatori una buona dose di valore.
Quelle che avete appena letto sono un paio di pagine del libro di Antonio Belloni,
Food Economy L’Italia e le strade infinite del cibo tra società e consumi. Vi ho lasciato sotto il link di Amazon per vedere se anche voi lo comprate inavvertitamente come è capitato a me. Potrete anche non crederci ma è successo proprio così. Incuriosito dal cartellone pubblicitario di
Cortilia, nella fermata della metropolitana di Duomo a Milano, ho fatto un paio di ricerche su come quell’azienda interpreta il concetto di disintermediazione, sono finito sul link in questione e mi sono trovato il libro sul Kindle. A quel punto non ho potuto fare a meno di leggerlo e mi sembrava giusto condividere con voi almeno alcune delle pagine che hanno generato il tutto. Questi temi sono molto attuali, sia per chi sta organizzando i mercati, sia per i Gruppi di Acquisto Solidale, come abbiamo documentato recentemente, riportando un loro intervento al
Convegno sulla Sovranità Alimentare tenutosi a Milano.
redazionemaipiuragnatele
L’ha ribloggato su Maipiuragnatele.