La Ruche qui dit Oui

Vi riportiamo ampi stralci di due articoli che documentano un’esperienza che è arrivata anche in Italia. Ci sono stati segnalati da esperienze di Economia Solidale dell’area milanese. Come a loro, il tema della logistica legata al cibo sapete che ci interessa moltissimo e crediamo che quanto ci hanno consigliato di leggere sia da condividere con voi.  Le foto sono del nostro archivio.

Un bar di città che per una sera a settimana si trasforma in un mercato, con cassette di frutta e verdura, formaggi freschi e carne di allevatori locali. Tutta opera dell’organizzazione L’Alveare che dice Sì, nata a Torino a ottobre, prima costola della madre francese La Ruche qui dit Oui.

Il progetto: mettere in rete, attraverso Internet, produttori e consumatori del territorio per incentivare gli scambi, la socialità e la conoscenza delle ricchezze culinarie della propria zona.

L’idea nasce e si sviluppa in Francia nel 2010-2011. Si realizza un sito che serve da collettore e connessione tra i produttori e i cittadini che vogliono acquistare direttamente dalle aziende locali.

Il portale gestisce le vendite e rilascia fattura. I gestori dei punti di scambio delle merci – gli alveari – si fanno carico di organizzare i momenti d’incontro, che possono avvenire anche in ristoranti, librerie. Qualsiasi tipo di locale può andare bene.

Da 24 alveari nel 2011 in Francia si passa agli oltre 600 nel 2014 tra lo Stato transalpino e il Belgio.
L’organizzazione guadagna fama e nome internazionale: The Food Assembly. Nel 2014 viene fondata anche in Spagna, Inghilterra, Germania e ora in Italia.

I numeri evidenziano la crescita esponenziale: i produttori attivi nel 2011 erano 103, oltre 2300 nel 2013. Stesso aumento per i membri attivi passati da 840 a 60mila in soli tre anni.

Gli ordini conteggiati lo scorso anno sono stati oltre 207mila per un giro d’affari totale che solo in Francia e Belgio ha superato i 9 milioni di euro. Nel 2011, anno della fondazione, si attestava appena sui 4mila euro annui.

Quattro ragazzi tra i 26 e i 30 anni hanno deciso di dare vita all’organizzazione anche in Italia e si stanno preparando a gestire lo sviluppo degli alveari nei prossimi mesi. Sono Claudia Bonato per il settore marketing e comunicazione, Jacopo Aversano responsabile della gestione degli alveari, Domenico Rago coordinatore dei produttori e Eugenio Sapora coordinatore del progetto Italia.

“Abbiamo già ricevuto manifestazioni d’interesse dalla Sicilia e dal Lazio – riferisce Claudia Bonato, tra i fondatori – Ci concentriamo sulla nascita dei primi gruppi qui nel torinese e poi apriremo al resto del territorio”.

In Italia il progetto è solo agli esordi ma sono già sei le richieste di apertura di alveare in attesa.
Secondo l’ultimo censimento dell’agricoltura del 2010 nel nostro paese sono più di 1 milione le aziende agricole e sono presenti più di 217mila allevamenti di diversi tipi. Numeri che danno l’idea della grandezza del mercato italiano e delle possibilità di sviluppo della rete.

Per fondare un gruppo è necessario raccogliere un minimo di sei produttori, di cui almeno uno di frutta e verdura. I consumatori iscritti all’alveare devono essere minimo 40 e le aziende devono far parte di un’area non superiore a un raggio di 250 chilometri. “In Italia si superano i confini regionali – ammette Bonato – Sta all’intelligenza dei gestori scegliere e prediligere il locale”.

Claudia e gli altri tre fondatori avranno il compito di valutare chi si proporrà per gestire un alveare e anche di cercare aiuti per una diffusione capillare dell’iniziativa.

Dovranno inoltre controllare il livello dei produttori iscritti, i membri più tutelati: sono loro a fissare il prezzo dei prodotti, a stabilire un tetto minimo di acquisto e a guadagnare l’84 per cento sulla vendita, senza intermediari.

L’8 per cento è incassato dal gestore che si è fatto carico dell’organizzazione dell’incontro dal vivo per lo scambio e la percentuale restante è il guadagno di chi si occupa del sito.

Le divisioni sono stabilite da statuto aziendale e sono vincolate: non potranno mai essere modificate.

L’unione della rete e dei social con il territorio, i suoi prodotti e i suoi cittadini è la vera innovazione.

Attraverso il portale i produttori possono comunicare con i consumatori per stabilire prezzi di vendita, raccontare il loro lavoro, far conoscere una realtà.

Da parte loro gli iscritti possono consultarsi e scambiarsi esperienze e opinioni attraverso un blog e le pagine Facebook e Twitter dedicate.

“Si va oltre il concetto dei gruppi di acquisto solidale, spesso poco organizzati – precisa Bonato – Le vendite e gli scambi avvengono una volta a settimana permettendo di fare una spesa famigliare e non di grandi quantità. Inoltre è fondamentale l’aspetto sociale: conoscersi, condividere esperienze e capire il lavoro del produttore e le necessità di chi acquista”.

La mission dell’organizzazione è promuovere l’alta qualità del cibo locale, creare un impatto economico positivo sui territori e migliorare il rapporto tra gli individui.

In Europa ogni mese ci sono dalle 20 alle 50 nuove aperture e si contano 75mila clienti l’anno.
“Nei luoghi dove l’organizzazione è più sviluppata è stato stimato un aumento dell’occupazione dell’8 per cento – aggiunge Bonato – Questo è possibile per diverse ragioni. C’è bisogno di personale che gestisca la rete quando si ingrandisce. Per l’Italia si dovrà pensare a un paio di sedi distaccate al centro e al sud. E poi aumenta la socialità nei locali che si scelgono come luoghi di scambio, si aiutano i produttori a fare girare le loro aziende. L’alveare innesca un ciclo virtuoso”. [Fonte..]

 

Vendita diretta?

La Ruche qui dit oui! non compra nulla e non vende nulla. Da nessuna parte si maneggia del denaro, i pagamenti avvengono on-line dato che i produttori fatturano direttamente i clienti via la piattaforma bancaria del gruppo internazionale Ingenico Payment Services (Belgio e Lussemburgo), che realizza le transazioni senza farle transitare dalla Ruche. Se ci si attiene al fatto che i prodotti e i flussi finanziari non passano, materialmente, né dalla Ruche centrale, né dalla Ruche locale, si può sostenere che si tratta di vendita diretta.
Ciononostante, la transazione permette di remunerare TRE intermediari (che non sono né produttori, né consumatori di cibo): il responsabile della Ruche locale, la società Tunz/Ogone che gestisce i flussi finanziari, via il suo porta moneta elettronico, tra Belgio e Lussemburgo e la società di brokeraggio Equanum SAS editore della piattaforma internet centralizzata.

Non per nulla, LSA (Libre Service Actualité), il magazine della grande distribuzione francese, considera La Ruche qui dit oui come la start-up più promettente della distribuzione alimentare. Si capisce il perché di tanto entusiasmo, qualora si consideri che i suoi proprietari riescono a costruire un’autentica rete nazionale di distribuzione che permette loro di ricevere una commissione del 4% su ogni vendita, grazie all’energia di attivi che lavorano solo a part-time o che non hanno alcun lavoro (disoccupati, titolari di RSA, pensionati che cercano un reddito di complemento, casalinghe, studenti con qualche ora libera, o magari anche, cultori di convivialità et di ben mangiare, scandalizzati dal sistema di distribuzione dominante).

Frutteto Giovanni Caputo - Cilentolab

 

Dei meriti oggettivi

Eppure, benché si definisca “impresa lucrativa e molto business”, La Ruche qui dit oui! mette l’accento su una serie di costatazioni inoppugnabili che illustrano la sua volontà di promuovere importanti cambiamenti, congruenti con l’attuale domanda di “legami sociali”.
Garantendo la qualità e la tracciabilità dei prodotti, riducendo drasticamente trasporti e imballaggi, eliminando le spese di pubblicità, dimostrando la validità d’un modello economico d’impresa differente La Ruche qui dit oui! indebolisce l’egemonia delle strutture commerciali che impongono i prezzi ed esigono margini esorbitanti. Favorendo la produzione agricola locale, creatrice posti di lavoro, facilitando l’accesso a un’alimentazione di qualità, La Ruche qui dit oui! contribuisce a mettere in evidenza che pratiche produttive diverse dall’industria agro-alimentare sono possibili e valevoli, accelerando, così, la transizione verso l’agricoltura di prossimità, fino a trasformare le grandi orientazioni agricole del paese.

Incoraggiando le filiere corte alimentari, facendo del consumo un vettore di significati, di sociabilità, di relazioni umane e sociali tra consumatori e produttori e tra consumatori stessi, La Ruche qui dit oui! sensibilizza un numero crescente di persone al problema delle pratiche culturali, dei modi di distribuzione e d’alimentazione. Così, La Ruche qui dit oui! rivendica energicamente il proprio contributo all’elaborazione di un nuovo paradigma economico, centrato su valori molto forti e su quel “re-incastramento” dei legami economici nel sociale, preconizzato da Polanyi, ne La grande trasformazione (1944).

Non c’è dubbio che il “dispositivo di circolazione del valore” costituito delle singole Ruches locali è propizio alla piccola dimensione, all’agire assieme in prossimità”, all’intreccio tra rapporti produttivi e rapporti interpersonali, all’autonomia del territorio, all’appropriazione e alla riconversione locale della maggior parte del valore aggiunto. D’altra parte, la loro autonomia è senz’altro favorevole alla diversità dei produttori, delle produzioni agricole, delle specie.

Una trasparenza limitata

Per concludere, bisognerebbe sapere se si possa dire la stessa cosa per quanto riguarda la presa delle decisioni, la gestione delle funzioni strategiche, la proprietà… cioè dei rapporti tra le Ruches e Equanum SAS. Purtroppo, i materiali reperibili su Internet non danno informazioni su questi aspetti, ragion per cui il “tour de la question” si interrompe, di fronte a una serie di domande, per ora, senza risposta. Che valore ha l’autonomia d’una Ruche locale, dato che il suo funzionamento dipende interamente da un’unica piattaforma informatica centrale? In che misura il responsabile d’una Ruche locale può prender parte alla governance della struttura “partecipativa” centrale?  Dal punto di vista del territorio locale, qual è la funzionalità d’una struttura centralizzata (distante), visto che si tratta di favorire la prossimità e le relazioni interpersonali… visto che produttori, consumatori, forniture, movimentazioni, consegne, distribuzioni avvengono localmente e che anche i controlli sono delegati alla pressione della rete comunitaria locale?

Quali potrebbero essere le “altre” funzioni che necessitano una centralità, se non la costituzione di data base (monitoraggio statistico, informazioni sui consumatori)… se non la gestione dei flussi finanziari (ben più che la “sicurezza delle transazioni”, apparentemente superflua, alla scala locale d’una cinquantina di famiglie e d’una decina di produttori)? Cosa pensare dell’intervallo di pagamento tra consumatore e produttore (i produttori sono pagati entro 15 – 20 giorni dalla consegna) e delle opportunità d’investimento sui mercati finanziari che offre?  Come interpretare il riconoscimento ESS attribuito ad una struttura che, lungi dall’essere una cooperativa, una mutua, un’associazione, una fondazione, un fondo d’investimento solidale oppure un’impresa d’inserzione, si autodefinisce “impresa lucrativa molto business” e resta proprietà dei suoi fondatori-dirigenti non eletti? In che modo e da chi saranno appropriati gli eccedenti, quando Equanum SAS comincerà a realizzarne (per ora comincia appena a registrare qualche risultato)? Cosa accadrà quando grandi distributori faranno proposte d’acquisto (non mancano, anche nel campo dell’economia sociale e solidale, esempi di OPA su start-up di successo)? A quel punto, che valore avrà la Charte de référence? Che fine farà il riconoscimento ESS? Quale sarà il loro comportamento quando, mettendo in piena luce la struttura reale del potere, le circostanze avranno mostrato che le Api regine non ne hanno alcuno? C’è da chiedersi se le istanze che hanno concesso quel riconoscimento siano in grado di rispondere a ciascuna di queste domande.

 

Imprecare o imparare?

Benché i dirigenti del “movimento interregionale delle AMAP” abbiano dichiarato in una lettera aperta: “ci rallegriamo che circuiti corti diversi dai nostri, permettano a un più gran numero di contadini di vendere, in condizioni più favorevoli che la GD”,basta andare sui siti internet del movimento del consumo responsabile per costatare che l’apparizione (e l’affermazione) de La Ruche a scatenato reazioni d’una ostilità radicale.
In realtà, il Movimento si mostra profondamente indignato che dei capitalisti approfittino dello sviluppo della vendita diretta e dei circuiti corti e, nella Ruche non vede altro che “la sterminatrice dei piccoli contadini bio”, auspicando che “una contro-offensiva intervenga, prima che sia troppo tardi per la loro sopravvivenza”.
Eppure, visitando i suoi siti, conoscendone i contenuti aldilà della Home page (iscrizione obbligatoria, ma “innocua”) si constata che le Ruches locali non hanno nulla a che vedere con il postalmarket: sfoglio, vedo, compro. Al contrario, si fanno carico della voglia di socializzazione che si manifesta dappertutto, dedicando la massima cura a rispondervi con momenti di incontro faccia a faccia, condivisione delle scelte, di visite nei poderi e contatto diretto con i produttori, e anche occasioni di discussione o di svago.

Le imprecazioni stizzose non potranno mai sostituire un’attenta disamina dei motivi per cui il richiamo della Ruche oltrepassa di gran lunga la domanda militante, riuscendo ad attirare anche un vasto pubblico, ancora assai lontano dalla filosofia del Movimento. Il vantaggio competitivo di questo marchingegno non sta nei capitali di cui ha bisogno solo perché la piattaforma è iper-centralizzata e deve controllare i flussi finanziari. Non sta nemmeno nelle performances tecnologiche, dato che reti locali di GAS o AMAP dispongono di strumenti locali e autonomi, altrettanto efficaci (ditemi se sbaglio), su cui i produttori descrivono le loro pratiche culturali e disponibilità, su cui sono passati gli ordini e fissate le date di consegna. Il suo vantaggio competitivo sta nella sua divisa: Compra ciò che vuoi, quando vuoi.
Sta, cioè, nel fatto che, aldilà di un pubblico sensibile a certe considerazioni etico-sociali, la Ruche offre un’utilità alla popolazione globale, senza chiedere alcuna adesione ideale, senza imporre obblighi, limitazioni, controlli, ai consumatori.

Diverse inchieste di motivazione hanno già mostrato che, per un pubblico convenzionale, ordinario, interessato semplicemente dall’offerta di prodotti “puliti”, sani, a prezzi ragionevoli, le esigenze e gli obblighi inerenti al funzionamento di AMAP, GAS, eccetera, hanno effetti ripulsivi…
Ciò vuol dire che, se il Movimento vuole opporsi al ricupero capitalista della vendita diretta e dei circuiti corti, se intende conservare la leadership del loro sviluppo, non può limitarsi a un pubblico che si sente coinvolto da una certa concezione del mondo (se fossimo un partito, peseremmo meno del 2%), ma deve interfacciarsi con quell’assieme variegato di comportamenti, caratteri, opinioni, interessi, che costituisce la gran massa della popolazione.

Allora potremmo chiederci: quali sarebbero gli attributi, le caratteristiche, le qualità, i pregi, le virtù che potrebbero esser compromesse o andar perse, se i diversi e numerosi nuclei delle reti del “produrre-consumare locale” (cioè i vari GAS, reti di GAS, AMAP, eccetera), si appropriassero dello stesso dispositivo e, sbarazzandolo delle funzioni centralizzatrici e di quelle relative ai pagamenti, lo facessero proliferare, restituendolo alla dimensione del locale, dove funzionerebbe in modo autonomo?
Cosa andrebbe perso se, adottando lo stesso pragmatismo della Ruche, questi nuclei territoriali allargassero il ventaglio dei prodotti non solo al bio, ma anche all’agricoltura responsabile…, non solo agli ortaggi e ai latticini, ma anche alla drogheria (come fanno già i GAS italiani e belgi), se selezionassero i loro produttori attraverso procedure locali di certificazione partecipata, lasciandoli liberi di fissare i prezzi che considerano remunerativi?
Cosa andrebbe perso se questi sistemi locali lasciassero il consumatore scegliere liberamente ciò che compra, senza aspettarsi e tanto meno esigere, prestazioni gratuite, o partecipazioni conviviali… se riservassero gli obblighi solo a coloro che hanno la volontà di assumerseli (compiti logistici, animazione degli incontri consumatori-produttori e tra consumatori, nei momenti di consegna-distribuzione)… se funzionassero grazie alla dedizione dei più militanti, ricorrendo, se necessario, anche a lavoro retribuito, finanziato da prelevamenti ragionevoli, per integrare le prestazioni gratuite e volontarie?

Mercato Contadino Bollate - La Prima Edizione

 

Se i gruppi locali, a struttura associativa o cooperativa, come i GAS o le AMAP, adottassero lo stesso pragmatismo della Ruche, raccoglierebbero, molto probabilmente, quella stessa domanda che alimenta il suo sviluppo e potrebbero moltiplicarsi, fino a formare una rete territoriale, sufficientemente densa per costituire un mercato locale vero e proprio. É ben vero che non ci sarebbe solo domanda militante o simpatizzante, ma anche consumatori comuni (volgari?), attirati meno da esigenze etiche o da considerazioni morali, che semplicemente dal prezzo, dal gusto di prodotti colti a maturazione (niente conservazione e conservatori) e, forse anche (perché no?), dalla possibilità di convivialità e di contatti con i produttori contadini.

A prescindere dalle motivazioni della domanda, la moltiplicazione dei nuclei locali autonomi, autogestiti, dediti ai circuiti corti, rivolti a una clientela generica e animati da un gruppo di militanti, significherebbe incentivare l’istallazione di piccoli coltivatori (a patto che ce ne siano abbastanza), incrementare gli sbocchi per i loro prodotti (rendendo, perfino, superfluo il contratto preventivo obbligatorio delle AMAP)… sarebbe favorevole alla moltiplicazione e alla diversità dei produttori, delle produzioni, delle specie… permetterebbe la sensibilizzazione d’un più gran numero di persone alle pratiche culturali “pulite”, ai modelli di distribuzione e d’alimentazione, infittirebbe l’incrociarsi tra rapporti produttivi e legami interpersonali, limiterebbe fortemente sia la dimensione territoriale dei perimetri, che l’inflazione delle catene d’intermediazione, pur garantendo al territorio l’appropriazione del valore aggiunto… favorendo, così, la transizione ad una agricoltura di prossimità, più rispettosa dell’ambiente.

Purché non sfuggisse al controllo collettivo del Movimento, lo sviluppo d’una rete territoriale siffatta costituita da piccoli nuclei autonomi, anche fosse parzialmente alimentata da une domanda generica, poco sensibile alle esigenze etiche del Movimento, costituirebbe, pur sempre la dimostrazione pragmatica:
• che la grande deterritorializzazione capitalista non è la sola prospettiva possibile;
• che “il locale” può avere un’esistenza propria… che dispositivi territoriali di circolazione economica, volti verso il territorio, esenti da collegamenti verticali con la sfera finanziaria, alimentati da transazioni dirette di debole ampiezza, sono perfettamente efficienti e permettono prezzi accessibili per il consumatore e rimuneratori per il piccolo produttore contadino;
• che sistemi di produzione diversi da quelli dell’agro-industria sono possibili… che forme di circolazione in cui lo scambio è vettore di senso, occasione di sociabilità, di relazioni umane, sono praticabili e sostenibili. [Prosegue…]


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