Comunità di Pratica

Wenger E., (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, Cortina.
Scheda di Michela Bastianelli

Communities of Practice. Learning, Meaning and Identity è uno dei testi fondamentali (se non il testo fondamentale) sulla teoria delle comunità di pratica. In questo volume, infatti, l’autore non si limita a dare una definizione, seppure molto dettagliata, del concetto, ma ne fa anche uno strumento analitico capace di interpretare forme organizzative di vario tipo e di rappresentare il punto di partenza per una efficace ri-progettazione delle organizzazioni orientate alla conoscenza. Partendo dalla proposta di una nuova teoria dell’apprendimento, l’autore prosegue con l’analisi di due concetti fondamentali per la comprensione del costrutto comunità di pratica (d’ora in poi CdP): la pratica (e il genere di comunità sociali che questa definisce) e l’identità, stabilendo tra questi un parallelismo. Nell’epilogo – intitolato “la progettazione” – l’autore guarda, sempre sulla base di tale costrutto, alla progettazione dell’apprendimento, delle organizzazioni e della formazione.

L’approccio tradizionale al concetto di apprendimento considera tale processo come un percorso strettamente individuale, del quale è possibile individuare un inizio e una fine in quanto risultato di uno specifico insegnamento che ha luogo separatamente dalla pratica. Apprendere è invece, secondo l’autore, ben altro: è innanzitutto parte della natura umana,“fenomeno sociale” e frutto dell’esperienza situata. Tale approccio, maturato nel contesto della psicologia culturale e dell’etnografia applicata alle realtà organizzative, tiene conto di diverse teorie quali quelle del significato, della struttura sociale, dell’esperienza situata, della collettività, della soggettività, del potere, della pratica, e dell’identità. Sostanzialmente, questo approccio fonda le sue radici su una concezione decentrata dell’apprendimento, visto come processo sociale basato sull’esperienza, in cui l’acquisizione delle pratiche è parallela a quella dell’identità sociale, all’appartenenza alla comunità da parte dei professionisti e alla padronanza delle caratteristiche organizzative e relazionali di tale comunità. L’apprendimento è il risultato, secondo l’autore, di una partecipazione attiva allepratiche di una o più comunità sociali e 3 di cui facciamo parte (più o meno consapevolmente e a diversi livelli di coinvolgimento) e del processo di identificazione/appartenenza a tali comunità.

La pratica

In questa prospettiva la pratica ricopre un ruolo fondamentale per la comprensione dei fenomeni di apprendimento. Questa viene definita come il “fare (…) all’interno di un determinato contesto storico e sociale” (:47) cui la persona partecipa nella sua totalità. La pratica si caratterizza sostanzialmente per l’inclusione di aspetti spesso contrapposti tra loro: l’esplicito e il tacito, il codificato e il non codificato, il dire e il fare, la conoscenza e l’azione. In particolare, quattro sono i livelli di analisi della pratica proposti da Wenger:

  • 1. la semantica comune: la pratica come produzione sociale del significato;
  • 2. la comunità: la pratica come fonte di coerenza di una comunità;
  • 3. l’apprendimento: la pratica come processo di apprendimento continuo;
  • 4. i confini: la pratica come generatrice di confini.

La pratica come negoziazione del significato Per quanto riguarda il primo livello di analisi, ogni pratica dà luogo ad una produzione sociale di significato tra i membri che coincide sostanzialmente con il processo di negoziazione del significato, ovvero quel processo attraverso il quale i partecipanti coproducono un senso comune che viene continuamente modificato e dal quale sono continuamente influenzati. E’ in questa ottica che, secondo l’autore, “un significato è sempre il prodotto della sua negoziazione (…) non esiste né in noi, né nel mondo ma in quella relazione dinamica che è il vivere nel mondo” (: 54). Due sono secondo Wenger i processi che determinano la negoziazione del significato: la partecipazione e la reificazione. Questi due processi tra loro complementari e convergenti fanno rispettivamente riferimento: il primo ad un coinvolgimento attivo e ad una appartenenza a comunità sociali che implicano un’identificazione reciproca; il secondo ad una cristallizzazione del significato negoziato in artefatti e oggetti attorno ai quali viene organizzata la ri-negoziazione di nuovi significati e il coordinamento delle azioni dei singoli. Partecipazione e reificazione formano una dualità la quale non segna una separazione tra le persone e le cose. “Anche se la prima si riferisce direttamente alle persone e la seconda alle cose, la loro dualità indica che, in termini di significato, le persone e le cose non possono essere definite in modo distinto le une dalle altre” (: 70). Questa dualità è ciò che, in estrema sintesi, contraddistingue le CdP: tali realtà, infatti, non potrebbero esistere se non ci fossero delle comunità di persone e delle pratiche da co-produrre e condividere.

La pratica come comunità

Passando al secondo livello di analisi, quello della comunità, questa rimanda a tre “dimensioni” (:73) senza le quali sarebbe altrimenti impossibile parlare di CdP. Queste sono:

  • 1. l’esistenza di un impegno reciproco tra i membri, i quali si sentono legati da una comune identità e da rapporti di fiducia, intrattengono relazioni e lavorano insieme, in modi sempre diversi, per il mantenimento della comunità stessa;
  • 2. la realizzazione di una intrapresa comune, ovvero una responsabilità condivisa dei problemi e delle prospettive e una negoziazione delle attività tra i membri;
  • 3. la presenza di un repertorio condiviso fatto di artefatti, strumenti, routine, storie, linguaggi, azioni, credenze e valori che rappresentano la memoria storica della comunità.

Tuttavia, secondo Wenger, “una comunità di pratica non ha bisogno di essere reificata come tale per essere una comunità: questa, infatti, entra nell’esperienza dei partecipanti attraverso il loro impegno” (:84). Queste tre dimensioni dunque non hanno bisogno di essere individuate esplicitamente per creare un contesto di negoziazione di significato. L’impegno reciproco, ad esempio, può contribuire a far convergere la partecipazione e la reificazione; un’intrapresa comune può facilitare l’instaurarsi di relazioni di appartenenza reciproca senza che queste vengano in qualche modo formalizzate; le storie condivise possono diventare delle preziose risorse per la negoziazione del significato “senza far costantemente ricorso alla comparazione degli appunti (compare notes)”(:84).

La pratica come apprendimento

Le pratiche possono inoltre essere concepite come un insieme di “storie di apprendimento condivise” (:87). L’apprendimento, e passiamo al terzo livello di analisi, implica infatti secondo l’autore una continua negoziazione del significato che ha luogo nello svolgimento e nell’acquisizione di pratiche. L’apprendimento è in questo senso inteso come un incontro generazionale (tra anziani e novizi) in cui una persona “periferica” (il nuovo arrivato) viene riconosciuta a pieno titolo quale membro di una comunità. Ciò avviene non tanto attraverso la formazione ufficiale ma attraverso una graduale integrazione e una partecipazione periferica legittimata (legitimate peripheral partecipation – LPP) dei nuovi membri alle attività socialmente definite della comunità. I nuovi arrivati entrano a far parte della comunità acquisendo le routine (norme e procedure per svolgere i compiti), i resoconti (storie e aneddoti che raccontano la vita della comunità), un linguaggio specifico (modi di dire, terminologie ecc.), i rituali (eventi ricorrenti che sanciscono momenti importanti) e i simboli (oggetti e artefatti cui viene attribuito un particolare significato) che costituiscono il repertorio condiviso di una determinata comunità. Tale processo vede l’alternarsi di continuità e discontinuità dettate dal turnover dei partecipanti portatori di nuove conoscenze, esperienze e relazioni ma anche di nuovi artefatti con forti implicazioni sulle pratiche della comunità stessa. E’ in questa ottica che l’apprendimento richiede un certo “sforzo di partecipazione” (:102) volto alla negoziazione e ri-negoziazione del significato all’interno di un vero e proprio percorso di integrazione e coinvolgimento sociale imprescindibile dalla pratica e dall’identificazione con le pratiche.

La pratica come generatrice di confini

L’apprendimento è inoltre strettamente correlato ai confini di una data comunità, in quanto attraverso di essi si possono stabilire contatti con altre comunità e con la complessità che proviene dall’esterno. Tali confini non sempre coincidono con i confini istituzionali, ma sono piuttosto contraddistinti dal grado di appartenenza o multiappartenenza dei membri a determinate pratiche. Confini troppo rigidi possono rappresentare un ostacolo alla crescita e all’apprendimento della CdP, mentre un certo grado di permeabilità a livello periferico e “molteplici livelli di coinvolgimento” possono rappresentare “un’opportunità di apprendimento sia per gli outsider che per la comunità” (:117). Eventuali connessioni tra i confini di diverse comunità sono possibili, secondo l’autore, mediante la reificazione e la partecipazione. Queste presentano tuttavia caratteristiche diverse: mentre le connessioni messe in atto attraverso la reificazione sono focalizzate sugli oggetti/artefatti (tecnologie, documenti, database ecc.) utilizzati come tramite tra diverse comunità; le connessioni messe in atto attraverso la partecipazione sono invece focalizzate sulle persone che ricoprono il ruolo di intermediari (ad es. i broker) in grado di trasferire elementi di una pratica da una comunità all’altra. La soluzione “migliore” tra le due tipologie di connessione risulta comunque essere rappresentata da un loro impiego complementare. Soltanto in questo modo si è in grado, infatti, di instaurare una comunicazione efficace ovvero reali opportunità di negoziazione del significato o in alcuni casi concrete e fruttuose, dal punto di vista dell’apprendimento, opportunità di connessione basate sulla pratica (ad esempio quelle di tipo periferico cui abbiamo fatto riferimento in precedenza). [Segue…]

 

Coltivare comunità di pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza
di Etienne Wenger , Richard McDermott , William M. Snyder ,

La conoscenza non è un’entità fissa, bensì un’esperienza che si compie e si completa in forma di processo, nel tempo e nello spazio. Non si tratta cioè di un asettico e statico insieme di informazioni. Le comunità di pratica fanno della conoscenza una parte integrante della loro attività, sviluppano conoscenza sulla base dell’esperienza dei partecipanti alla comunità, i quali vogliono condividerla con ogni altro membro della comunità e crescere, migliorare facendo tesoro della ricchezza dei tanti che vi contribuiscono. La conoscenza è esplicita e anche tacita.

Introduzione di Domenico Lipari

Il punto di vista sull’apprendimento, enunciato da Wenger nei termini di una “teoria sociale dell’apprendimento”, mette in evidenza la necessità di andare oltre le visioni classiche che descrivono il fenomeno come strettamente legato alla sfera individuale (oltre che associato a specifiche relazioni d’insegnamento del tutto separate dalla pratica) per delineare una prospettiva sociale e decentrata gli attori sociali sono costantemente immersi in una realtà (le loro vite e gli innumerevoli mondi che abitano) preesistente rispetto a loro e che si pone davanti alla loro esperienza con tutte le sue oggettivazioni (il linguaggio, le regole, le norme, le istituzioni, le tradizioni, gli oggetti materiali, gli artefatti, ecc.). E’ la complessa realtà – intesa come costruzione sociale e storico-culturale preesistente – che funge da punto di riferimento orientativo per l’azione di tutti e che “impegna” l’esperienza dei soggetti conoscenti i quali, per diventare attori sociali, cioè attori capaci di stare nel mondo con pertinenza, sono chiamati a confrontarsi con essa per appropriarsene. L’apprendimento, dunque, altro non è che il modo del tutto particolare con cui l’esperienza soggettiva degli attori entra in relazione con il mondo, caratterizzato non solo dalle oggettivazioni storicamente e culturalmente date, ma anche da altri attori che sono al mondo e del mondo fanno esperienza. Ma il modo di rapportarsi con il mondo preesistente non si configura nei termini di un rispecchiamento della realtà oggettivata nella coscienza del soggetto e nemmeno nei termini dell’impressione di segni su una tabula rasa passiva pronta a farsi incidere. Al contrario, il modo di rapportarsi al mondo preesistente si configura secondo una dinamica in cui la coscienza è attiva e riflessiva. Da questo punto di vista la riflessività della coscienza (Crespi 1989), intesa come capacità di arrestare il flusso ordinario della condotta di routine, per interrogarsi su di essa, per orientarne il senso e come capacità di negazione (di disconoscere cioè le oggettivazioni, di opporsi ad esse e di cambiarle), diventa il tratto fondante del soggetto, della sua libertà, della sua capacità di implicarsi nei processi in cui è impegnato, in una parola della sua capacità di apprendere. L’apprendimento non è dunque riducibile alla dimensione mentalistica, ma è un fenomeno che investe simultaneamente la sfera esperienziale, quella emotiva e quella cognitiva. Inoltre, non è riducibile alla dimensione strettamente individuale, perché, quale che sia la particolare modalità di apprendere esperita da ciascun soggetto, essa è legata alla sfera delle relazioni intersoggettive e delle relazioni con oggetti/artefatti materiali La sfera intersoggettiva ha che fare con l’insieme delle relazioni che ciascuno mette in atto nel momento in cui si rapporta con altri soggetti dotati delle stesse caratteristiche di soggettività (con rilevanti implicazioni sul versante delle dinamiche di partecipazione, di solidarietà, di cooperazione, di transazione, di potere e di conflitto). La dimensione delle relazioni con oggetti/artefatti materiali(Latour 2002) rinvia ad un analogo (anche se talvolta meno immediato) intreccio relazionale: nel momento stesso in cui entriamo in relazione con il mondo, non solo ci misuriamo con altri soggetti come noi, ma anche con l’insieme degli oggetti prodotti dagli altri o con materiali che noi stessi trasformiamo in oggetti; ora, questi artefatti, proprio per il fatto di entrare nella sfera della nostra esperienza, entrano direttamente nel gioco relazionale in cui siamo implicati influenzando in vari modi la nostra azione. L’insieme di questi tratti (relazione con altri e con cose/artefatti), oltre che la dimensione sociale, mette in evidenza anche il carattere situato (cioè: queste relazioni avvengono in un luogo determinato) e quello esperienziale e pratico dell’apprendere: l’esperienza che noi facciamo con il nostro agire si sedimenta nel bagaglio delle nostre conoscenze (in parte, come frutto di acquisizioni intuitive derivanti dal fare e dal veder fare che si trasformano in routine d’azione; in parte – nei casi in cui le conoscenze di routine non sono sufficienti o soddisfacenti – come esito della rielaborazione intellettuale incorporata (Dewey 1961 e 1973) di un’esperienza di successo che ha modificato in modo più o meno rilevante una condotta pratica. Emerge, in sintesi, un’interpretazione in cui l’apprendimento si configura (Wenger 1998) come un processo di “partecipazione sociale” fondato sulla pratica nel quale entrano in gioco simultaneamente (i) l’acquisizione di competenze (tecniche e relazionali) situate, (ii) la costruzione dell’identità individuale e sociale, (iii) l’attribuzione di significato all’esperienza, (iv) il riconoscimento dell’essere parte di un insieme che, nella pratica, condivide saperi, valori, linguaggi e identità. [Segue…]

Cibo, agri-culture e modelli di sviluppo
Riflessioni antropologiche a partire dall’Himalaya Indiano
di Federica Riva

L’attrezzo va visto all’interno di un processo di apprendistato dell’abilità e di appartenenza ad una comunità di pratica che non si definisce solo per le specifiche attività che vengono svolte al suo interno, ma fornisce un pattern, una forma relazionale all’interno della quale si condivide un linguaggio del corpo, un codice simbolico(cfr. Grasseni, Ronzon 2004: 207). È nella comunità di pratica, infatti, che sono depositate le routine quotidiane, che si è iniziati all’uso appropriato degli attrezzi ed educati all’abilità come valore sociale connesso al proprio specifico posizionamento. È a partire dallo sforzo di appartenenza alla comunità, dal desiderio di farne parte come membro competente e socializzato ai valori condivisi, che possiamo avvicinarci alla dimensione pienamente relazionale, socializzante, valoriale degli attrezzi di lavoro. Imparare a utilizzarli in modo abile, competente e diversificato è un processo di apprendimento che comporta una “partecipazione guidata” alla comunità, alle relazioni, valori, estetiche su cui si basa. “Imparare a fare” assume il valore collettivo di “entrare a far parte”. Il processo di apprendistato segna, quindi, il percorso individuale di divenire un soggetto pienamente socializzato. Inoltre, la dimensione temporale in cui è inserito l’apprendimento di un sapere incorporato ha a che vedere con i cicli di vita, con la ridefinizione della propria posizione identitaria attraverso la co-partecipazione. L’iniziazione a nuovi attrezzi e attività porta sempre con sé l’emozione di un riconoscimento identitario e di un continuo processo del proprio divenire sociale prendendo posto in una complessa rete di relazioni. [Segue…]


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